A cura del Dott. Giovanni Chetta
La Matrice ExtraCellulare è generalmente descritta come composta da alcune grandi classi di biomolecole:
– Proteine strutturali (collageni ed elastina)
– Proteine specializzate (fibrillina, fibronectina, laminina ecc.)
– Proteoglicani (aggrecani, sindecani) e glusamminoglicani (ialuronani, condroitinsolfati, eparansolfati ecc.)
Proteine strutturali
I collageni formano la famiglia di glicoproteine più rappresentata nel regno animale. Sono le proteine più presenti nella matrice extracellulare (ma non le più importanti) e sono i costituenti fondamentali dei tessuti connettivi propriamente detti (cartilagine, osso, fasce, tendini, legamenti).
Esistono almeno 16 diversi tipi di collagene, di cui i tipi I, II e III sono quelli più presenti a livello delle tipiche fibrille (il tipo IV forma una specie di reticolo che rappresenta il maggior componente delle lamine basali).
I collageni vengono perlopiù sintetizzati dai fibroblasti, ma anche le cellule epiteliali sono in grado di sintetizzarli.
Le fibre di collagene interagiscono continuamente con un’enorme quantità di altre molecole della matrice extracellulare, costituendo un continuum biologico fondamentale per la vita della cellula. I collageni associati in fibrille occupano un ruolo predominante nella formazione e nel mantenimento di strutture in grado di resistere a forze di tensione, essendo quasi anelastiche (i glucosaminglicani esplicano azione di resistenza a compressioni). In qualche modo il collagene viene prodotto e rimetabolizzato in funzione del carico meccanico e le sue proprietà visco-elastiche comportano, come vedremo nel paragrafo “Viscoelasticità della fascia”, un grosso impatto sulla postura dell’uomo. Ad ulteriore dimostrazione della capacità del collagene di modificarsi in base alle influenze ambientali, assumendo ad es. gradi variabili di rigidità, elasticità e resistenza, vi sono collageni, definiti col termine FACIT (Fibril Associated Collagen with Interrupted Triple helices) in grado di agire funzionalmente come i proteoglicani (descritti nel paragrafo “Glucosaminoglicani e proteoglicani”).
Le fibre di collagene, grazie al loro rivestimento di PG/GAG (proteoglicani/glucosaminoglicani) possiedono proprietà di biosensori e bioconduttori: le relative cariche elettriche comportano una maggior capacità di legare acqua e scambiare ioni, quindi una maggior capacità elettrica.
Sappiamo che qualunque forza meccanica in grado di generare una deformazione strutturale sollecita i legami inter-molecolari, producendo un leggero flusso elettrico ossia la corrente piezoelettrica (Athenstaedt, 1969). In tali casi, le fibre collagene distribuiscono le cariche positive sulla propria superficie convessa e le negative su quella concava, trasformandosi così in semiconduttori (consentono il flusso di elettroni sulla loro superficie a senso unico). Poiché l’energia piezoelettrica (così come quella piroelettrica generata da sollecitazioni termiche) viene neutralizzata dagli ioni circolanti in tempi brevissimi (ca. 10-7 – 10-9 secondi), per la propagazione del segnale risulta decisiva la disposizione dei PG/GAG sulla superficie delle fibrille, tale da fungere da “ripetitori” dell’impulso elettrico. In particolare, una periodicità longitudinale di ca. 64 nm (che al microscopio ottico appare come una striatura) consente una velocità di propagazione dell’impulso pari a circa 64 m/s (corrispondente alla velocità di conduzione delle fibre nervose veloci) – Rengling, 2001. Il forte momento dipolare delle fibrille collagene e la loro capacità di risonanza (proprietà comune a tutte le strutture peptidiche), nonchè la bassa costante dielettrica della MEC, facilitano la trasmissione dei segnali elettromagnetici. Pertanto la tridimensionale e ubiquitaria rete di collagene possiede anche la peculiare caratteristica di condurre segnali bioelettrici nelle tre dimensioni dello spazio, in base alla disposizione relativa tra fibrille collagene e cellule, in direzione afferente (dalla MEC alle cellule) o, viceversa, efferente.
Tutto ciò rappresenta un sistema di comunicazione in tempo reale MEC-cellula e tali bio-segnali elettromagnetici possono comportare importanti modifiche biochimiche, ad esempio, nell’osso, gli osteoclasti non possono “digerire” osso piezoelettricamente carico (Oschman, 2000).
Va infine sottolineato che la cellula, non a caso, produce continuativamente e con notevole dispendio di energia (ca. il 70%) materiale che deve necessariamente estromettere, tramite perlopiù lo stoccaggio esclusivo di protocollagene (precursore biologico del collagene) in specifiche vescicole (Albergati, 2004).
La stragrande maggioranza dei tessuti dei vertebrati necessita della presenza contemporanea di due caratteristiche vitali: robustezza ed elasticità. Un vero e proprio network di fibre elastiche, localizzate all’interno della MEC di questi tessuti, consente di ritornare alle condizioni iniziali dopo forti trazioni. Le fibre elastiche sono in grado di incrementare l’estensibilità di un organo o di una sua porzione di almeno cinque volte. Fibrille collagene lunghe, anelastiche, si intervallano fra le fibre elastiche col preciso compito di limitare un’eccessiva deformazione per trazione dei tessuti. L’elastina rappresenta la maggior componente delle fibre elastiche. Essa è una proteina estremamente idrofobica, della lunghezza di circa 750 aminoacidi, come il collagene è ricca in prolina e glicina ma, a differenza del collagene, non è glicosata e contiene molti residui di idrossiprolina e non di idrossilisina. L’elastina si presenta come un vero e proprio network biochimico di forma irregolarmente tridimensionale, composto da fibre e lamelle che permeano la MEC di tutti i tessuti connettivi. Si trova in quantità particolarmente abbondanti nei vasi sanguinei a caratteristiche elastiche (è la proteina della MEC più presente nelle arterie e rappresenta più del 50% del peso secco totale dell’aorta), nei legamenti, nel polmone e nella cute. Nel derma, contrariamente a quanto accade per il collagene, la densità ed il volume dell’elastina tendono ad aumentare col passare del tempo, ma l’elastina vecchia appare in genere ingrossata, quasi tumefatta, spesso con aspetto frammentato e con una riduzione della componente “amorfa” (Pasquali Rochetti et al, 2004). Cellule muscolari lisce e fibroblasti sono i maggiori produttori del suo precursore, la tropoelastina, secreta negli spazi extracellulari.
MEC e patologie
L’attività delle metalloproteasi (MMPs) viene regolata in maniera molto fine durante il fisiologico rimodellamento dei tessuti. Tale regolazione sembra essere persa o drammaticamente ridotta in situazioni patologiche quali la crescita tumorale. La bilancia proteasica-antiproteasica possiede anche una sorta di controllo spaziale, nel senso che i tessuti si organizzano creando una “muraglia” di inibitori che circonda l’area ove sono presenti le metalloproteasi attivate (pertanto le cellule che producono le proteasi sono differenti da quelle che producono i relativi inibitori). Tutto questo sistema è ovviamente sottoposto a numerose influenze. In particolare lo stress ossidativo è in grado di modificare profondamente la bilancia proteasi-antiproteasi tramite i radicali liberi (ROS Reactive Oxygen Species o ROTS Reactive Oxygen Toxic Species) prodotti dagli “insulti” ambientali e metabolici e capaci di determinare vari danni ubiquitari in quanto non neutralizzati dai normali sistemi di difesa (scavengers): danneggiamento del DNA (spesso per mancata riparazione da parte della DNA-polimerasi e per autoptosi), necrosi cellulare, lipoperossidazione lipidica, disgregazione della matrice, quindi perdita funzionale dei recettori (integrine), danno mitocondriale e di altri organuli cellulari, blocco della catena respiratoria, quindi della produzione energetica, morte cellulare con sostituzione di collagene ossia fibrosi (Izzo, 2001).
Stress ossidativo → attivazione MMPs e blocco TIMPs (inibitori delle MMPs) → Danno matriciale globale
La MEC è una sostanza fondamentale e vitale per gli scambi metabolici cellulari, un tipo di materia composita e viva che, pur variando spesso il proprio status da sol a gel, resta pur sempre una specie di “mare interno”, ricco, molto complesso e sensibile ai fenomeni di base quali tossicosi intestinali, alterate fasi di depurazioni epaticorenale, acidificazioni e alterazioni vascolari o dei sistemi di ossidoriduzione.
L’equilibrio strutturale e metabolico del compartimento extracellulare risulta fondamentale nella regolamentazione degli scambi vitali di base. E’ tramite l’alterazione di questi meccanismi di equilibrio dell’omeostasi fisiologica che praticamente quasi tutte le malattie croniche e degenerative iniziano nella MEC. Molte malattie genetiche sono il risultato finale di mutazioni primitive di numerose molecole della MEC (Albergati, Bacci, 2004).
Numerose patologie croniche e degenerative (tipiche malattie della nostra società) presentano una tendenza all’acidosi e all’aumento dei radicali liberi, da cui l’importanza di mantenere il ph corporeo a ca. 7,4 cioè leggermente alcalinotramite, in maniera particolare, unacorretta alimentazione. A tal riguardo va sottolineato che non si tratta sempre di un problema sistemico, ma talvolta anche di un’acidosi e/o uno stato ossidativo locale tissutale. Mentre nei grandi vasi le alterazioni ossidative e del pH vengono facilmente tamponate, nei tessuti e nei capillari l’acido viene spinto immediatamente fuori dalla cellula, attraverso le specifiche pompe, alterando i delicati scambi di gas e sostanze nutritizie (Worlitschek, 2002).
Nel neurone, la mielina esercita una protezione dell’assone quasi completa ad eccezione di brevi spaziature, nodi di Ranvier, in cui l’assone si trova a diretto contatto con la MEC. A livello dei nodi sono quasi esclusivamente presenti i canali del Na+; da cui anche qui l’importanza del pH extracellulare per la salute del neurone. Quando riversati nello spazio intersinaptico, i neurotrasmettitori, es. acetilcolina, vengono legati da canali di Na+ o K+; l’idrolisi dell’acetilcolina in colina e acetato, da parte della colinesterasi, libera rapidissimamente lo spazio intersinaptico consentendo il ripristino dello stato primitivo della MEC (Bloom, 1988).
La riduzione del flusso microcircolatorio inibisce la lipolisi e l’uscita di grassi liberi e glicerolo, cioè produce lipogenesi. Tramite le osservazioni ultrastrutturali risulta facile osservare la connessione strutturale e funzionale degli adipociti e dei fibroblasti con i canali precollettori linfatici. Quando è presente una lipolisi, l’adipocita diminuisce di volume e il fibroblasta può contrarsi lasciando spazio al passaggio dell’acqua di derivazione metabolica che, assieme alle macromolecole proteiche, grassi ecc., forma in tal modo la linfa che depura cellula e tessuto. In caso di lipogenesi o di alterazione metabolica tissutale, fibroblastii e relative fibrille si decontraggono e la linfocinetica viene rallentata associando così al lipoedema (caratterizzato da iperpressione tessutale per aumento di acqua legata) il linfedema (caratterizzato da iperpressione interstiziale e vasale di acqua libera e proteine, ossia di linfa, con pressioni osmotiche maggiori)- (Campisi, 1997). E’ quindi possibile definire un “sistema linfoadiposocellulare” che potrebbe costituire la chiave di lettura dell’iniziale etiologia di tutte le alterazioni edematose che avrebbero così origine proprio nelle alterazioni della MEC (Curri, 1990). A tutto ciò concorre l’eccesso di zuccheri introdotti con la dieta (che provoca uno stoccaggio di lipidi, lipogenesi, nel tessuto adiposo periferico), lo stile di vita e l’habitat moderni (con le sue implicazioni posturali descritte nel pragrafo”Vita artificiale”) nonchè l’assunzione di estrogeni tramite gli alimenti (estrogeni vengono utilizzati nell’industria alimentare e nel trattamento dei terreni) e i farmaci (ad esempio con la terapia estroprogestinica molto diffusa in particolare fra le giovani donne). Gli ormoni estrogeni esogeni entrano nell’organismo come pool che non viene legato alle proteine epatiche e che non viene riconosciuto dai meccanismi di feed-back ipofisario (gli estrogeni endogeni continuano quindi a essere prodotti). Essi vengono trasportati in forma libera dal sistema vascolare e di norma distribuiti a livello del tessuto adiposo periferico provocando lipogenesi e ritenzione idrica nella MEC favorendo in tal modo i lipoedemi superficiali nelle ben note zone corporee (Fain & Sheperd, 1979). A ciò sembrano aggiungersi le alterazioni disbiotico – fermentative intestinali che avvengono in particolare a livello del colon per cattiva alimentazione, che produrrebbero tossine che, attraverso il sistema vascolare, si fisserebbero nella MEC. Le tossine assorbite a livello ipodermico provocherebbero alterazioni metaboliche a causa della loro azione acidificante e di ossidazione cellulare con conseguente rallentamento degli scambi metabolici e ritenzione idrica interstiziale. Le conseguenze potenziali sono un aumento di ioni intracellulari e delle macromolecole, quindi del carico da drenare per via linfatica (Bacci, 1997).
Il termine IDH (Interstitial Hearth Disease) è stato coniato per evidenziare aspetti della genesi di alcuni scompensi cardio-circolatori in cui i miociti sarebbero “innocente bystander” nei confronti di eventi emodinamici con origine nelle cellule della MEC del cuore. Gli IDH sarebbero quindi dovuti ad anomalie strutturali dell’interstizio cardiaco, che rappresenta il 40% del miocardio (Gilbert & Wotton, 1997).
La MEC, e il collagene in modo particolare, giocano un ruolo vitale a carico dei reni. Le lesioni croniche tubulo-interstiziali sono direttamente correlate al declino dell’attività secretoria renale, che molto spesso si accompagna ad una deposizione di MEC e ad una trasformazione di fibroblasti in miofibroblasti (vedi in seguito paragrafo “Miofibroblasti”).
In caso di ipofertilità o sterilità maschile, in assenza di evidenti scompensi endocrino-metabolici, nel testicolo, con o senza la produzione di sperma, il diametro dei tubuli seminiferi risulta molto ridotto in quanto la parete è notevolmente ispessita ed il relativo tessuto connettivo prodotto dalla MEC aumenta proporzionalmente al deterioramento della funzione testicolare (incremento di laminina, vimentina e collagene IV) – Ikesen & Erdogru (2002).
Alterazioni morfo-funzionali dei collageni cartilaginei cosiddetti “minori” (III, IX, XI) avvengono durante il processo di invecchiamento e in molte patologie quali osteoartrite, discopatie, distacco di retina e glaucoma(Furth, 2001).
Oggi sappiamo che molte cellule epatiche (in particolare gli epatociti deputati all’immagazzinamento dei grassi, le cellule di Kupfer e gli endoteliociti) sono in grado di produrre “on demand” numerosi componenti della MEC. La fibrosi rappresenta a livello epatico la “via comune” di risposta a insulti epatocellulari (infezioni, disturbi della circolazione epatica, necrosi ecc.).
A livello dell’apparato respiratorio, le ricerche sempre più si orientano sulla MEC. Ad esempio in caso di asma sono presenti modifiche strutturali di varie componenti della MEC fra cui collagene e glicoproteine (Boulet, 1999).
Ogni molecola ed elettrone dell’organismo presenta una rotazione ed una vibrazione fisiologica propria e tipica, che viene alterata in stati patologici, in modo particolare, in quelli cronici e degenerativi. La MEC soggiace pertanto anche a leggi fisiche di tipo elettromagnetico per conservare il suo stato naturale di sol, permettendo la circolazione di quell’energia che rappresenta il motore principale di tutti gli scambi cellulari e tessutali di base. Le alterazioni fisico-energetiche associandosi a quelle biochimiche innescano patologie croniche e degenerative tramite lo squilibrio funzionale delle metalloproteasi. Auspicabile è l’applicazione di terapie integrate: chimico-fisiche (nutrizionali-farmacologiche) agenti dall’interno, meccanico-energetico (terapie manuali, del movimento, strumentali) agenti dall’esterno (Pischinger, 1996).
Tessuto connettivo
Introduzione
Il tessuto connettivo è parte integrante della MEC. Esso non presenta soluzioni di continuità: ogni tessuto e organo contiene tessuto connettivo e le loro funzioni dipendono in maniera straordinaria dalle interconnessioni anatomo-funzionali. Embriologicamente la maggior parte dei tessuti connettivi derivano dal mesoderma, alcuni tessuti connettivi del cranio derivano direttamente dal neuroectoderma.
Quello che fino a poco fa era considerato un “banale” tessuto di connessione e riempimento, è in realtà un sistema o organo con innumerevoli fondamentali funzioni.
Funzioni del tessuto connettivo
mantenimento postura, connessione e protezione organi, equilibrio acido-base, metabolismo idrosalino, equilibrio elettrico ed osmotico, circolazione sanguinea, conduzione nervosa, propriocezione, coordinazione motoria, barriera all’invasione di batteri e particelle inerti, sistema immunitario (leucociti, mastociti, macrofagi, plasmacellule), processi infiammatori. riparazione e riempimento zone danneggiate, riserva energetica (lipidi), di acqua ed elettroliti, di ca. 1/3 delle proteine plasmatiche totali, comunicazione intercellulare ed extra-intracellulare (Chetta, 2007).
Fascia connettivale
Fra i vari tipi di tessuto connettivo (tessuto connettivo propriamente detto, tessuto elastico, tessuto reticolare, tessuto mucoso, tessuto endoteliale, tessuto adiposo, tessuto cartilagineo, tessuto osseo, sangue e linfa), la fascia connettivale è il “ponte” che ci conduce dalla MEC alla postura.
Articolo-AT-01Prendendo spunto dalla schematizzazione proposta da F. Willard (2007), si può considerare la fascia suddivisa all’incirca in quattro strati formanti cilindri longitudinali concentrici fra loro interconnessi.
1) Lo strato/cilindro più esterno, presente sotto il derma, rappresenta la fascia superficiale. A livello del capo questa fascia si continua nella galea capitis (o galea aponeurotica che ricopre la parte superiore del cranio connettendosi posteriormente alla protuberanza esterna dell’osso occipitale, tramite la linea nucale, e anteriormente all’osso frontale, per mezzo di un corto e stretto prolungamento), mentre si fonde con la fascia profonda a livello della pianta del piede (formando i retinacoli del talo) e del palmo delle mano (retinacoli del carpo). La fascia superficiale è composta da tessuto connettivo lasso (sottocutaneo al cui interno può esserci una trama di fibre collagene e soprattutto elastiche) e adiposo (pertanto il suo spessore, oltre che dalla localizzazione, dipende dalla nostra alimentazione). Tramite fibre, tale fascia forma un continuum con derma ed epidermide verso l’esterno e, al contempo, si ancora ai tessuti e organi sottostanti. La fascia superficiale rappresenta un’importante sede di stoccaggio di acqua e grasso, e protegge da deformazioni e insulti meccanici e termici (strato isolante); è una via di passaggio per nervi e vasi sanguigni e permette lo scorrimento della pelle sopra la fascia profonda. Come la fascia profonda presenta poca vascolarizzazione.
2) Sotto la fascia superficiale vi è la fascia profonda, detta anche cervico-toraco-lombare, che rappresenta uno strato cilindrico piuttosto coeso intorno al corpo (tronco e arti). Essa è costituita da tessuto connettivo denso irregolare, formato da fibre collagene ondulate e da fibre elastiche (disposte secondo andamento trasversale, longitudinale e obliquo) e forma una membrana che riveste la parte esterna muscolare. Questa guaina, sviluppatasi intorno alla notocorda (che forma l’asse mediano embrionale), ricopre il corpo estendendosi dal cranio, a livello del margine della mascella e della base craniale con cui è fusa (e da cui si forma il cranio che però fa parte strato meningeo avendone la stessa origine embriologica), da qui si dirige verso gli arti superiori (fino a fondersi con la fascia superficiale a livello dei retinacoli del palmo della mano) e anteriormente passa sotto i muscoli pettorali, ricopre i muscoli intercostali e le coste, l’aponeurosi addominale e si connette alla pelvi. La fascia profonda gira posteriormente connettendosi ai processi trasversi e poi alle apofisi spinose formando quindi due comparti (destro e sinistro) contenenti i muscoli paravertebrali.
A livello dell’osso sacro, tale fascia forma un “nodo” inasportabile (in quanto fuso con l’osso) in cui convergono i vari compartimenti fasciali del corpo e da cui si diparte la porzione di fascia profonda che percorre gli arti inferiori fino a fondersi con la fascia superficiale, a livello della pianta del piede nei retinacoli del talo.
Caratteristica distintiva della fascia profonda è quella di formare dei comparti strutturali e funzionali, ossia contenenti determinati gruppi muscolari con innervazione specifica. Il compartimento conferisce anche delle caratteristiche morfo-funzionali specifiche al muscolo: un muscolo che si contrae all’interno di una guaina sviluppa una pressione che sostiene la contrazione stessa. I muscoli transversus abdominis costituiscono la parte attiva della fascia toraco-lombare.
A livello del singolo muscolo, la fascia profonda entra in contatto, tramite i setti, le aponeurosi e i tendini (formati da fibre collagene parallele e quasi del tutto inestensibili), con l’epimisio (tessuto connettivo fibro-elastico che riveste l’intero muscolo). L’epimisio si estende nel ventre muscolare costituendo il perimisio (tessuto connettivo lasso che riveste i fascicoli di fibre muscolari) e l’endomisio (delicato rivestimento della fibra muscolare).
In condizioni fisiologiche, tali setti e rivestimenti consentono lo scorrimento delle fibre muscolari nonché il loro nutrimento. Questa fascia è direttamente collegata sia anatomicamente che funzionalmente ai fusi neuromuscolari e agli organi tendinei del Golgi (Stecco, 2002).
Come la fascia superficiale, la fascia profonda è scarsamente vascolarizzata (spesso le incisioni chirurgiche vengono eseguite dove la fascia si sovrappone o si fonde in quanto la robustezza di tali zone consente ancoraggi sicuri e più facili riparazioni cicatriziali) e fornisce vie di passaggio per nervi e vasi.
Come approfondito nel capitolo “Biomeccanica della fascia profonda”, quest’ultima riveste un’enorme importanza dal punto di vista posturale.
Il cilindro costituito dalla fascia profonda contiene due ulteriori cilindri longitudinali posti uno dietro l’altro e formanti, quello anteriore, la fascia viscerale e quello posteriore la meningea.
3) Il cilindro posto anteriormente all’interno della fascia profonda, denominato fascia viscerale o splancnica, è una colonna fasciale che forma il mediastino, estendendosi dalla bocca all’ano tramite varie porzioni con simile struttura ed embriologia: parte dalla base del cranio, si estende giù lungo l’asse mediano (fascia endocervicale, faringea), forma il film ricoprente la pleura parietale dei polmoni (fascia endotoracica), attraversa il diaframma, circonda varie zone della cavità addominale avvolgendo la sacca peritoneale (fascia endoaddominale) e si estende fino alla pelvi (fascia endopelvica). La porzione maggiore di questa fascia si trova intorno agli organi toracici, sull’asse mediano, dove forma una colonna, il comparto mediastinico del torace. Il mediastino toracico si continua quindi con quello addominale fungendo anche da grosso condotto per i fluidi. A livello addominale la fascia endoaddominale si diparte dalla colonna assiale per rivestire completamente gli organi sospesi tornando poi a ricongiungersi con essa (i mesenteri sono ricchi di questa fascia). In alcuni punti la fascia viscerale tende a specializzarsi (ad es. si ispessisce intorno ai reni per proteggerli).
Questa fascia presenta quindi il grande vantaggio di poter creare degli scomparti ma, essendo anche un deposito di grasso, può creare problematiche di massa deformando la cavità corporea. Ad es. negli obesi può avvenire un’alterazione strutturale, quindi funzionale del diaframma: se l’aumento di massa endotoracico è tale da spingere verso l’esterno le coste, ciò causa un appiattimento del diaframma così che contraendosi, invece di funzionare come muscolo verticale che si abbassa sollevando le coste, traziona i bordi costali verso l’interno trasformandosi in un muscolo espiratorio. In tale situazione sarà impossibile effettuare una fisiologica respirazione profonda e si dovrà ricorrere a respiri brevi, superficiali e frequenti con tutte le conseguenze sulla salute derivanti da ciò.
Alcuni ricercatori considerano questa fascia un tutt’uno con quella profonda.
4) Il cilindro posteriore, contenuto nella fascia profonda e posto dietro la fascia viscerale, rappresenta la fascia meningea che racchiude l’intero sistema nervoso centrale.
L’osso craniale, praticamente sospeso sul materiale meningeo, presenta un’origine neuroectodermica sviluppandosi dalla base craniale per differenziazione delle cellule della cresta neurale cranica; esso fa quindi parte dello strato meningeo (e non di quello cervico-toraco-lombare che si ferma, come abbiamo visto, alla base craniale). Asportando l’osso occipitale si accede alla dura madre, punto di partenza superiore della fascia meningea che si estende in giù fino a c.a. la IIa vertebra sacrale tramite il sacco durale (contenente aracnoide, pia madre, midollo spinale, midollo sacrale, radici spinose spinali, nervi della cauda equina e liquor cerebrospinale). La fascia meningea possiede funzione protettiva e nutritiva del sistema nervoso centrale.
Meccanocettori fasciali
E’ il tessuto miofasciale in realtà a rappresentare il più vasto organo sensorio del nostro organismo; è da esso, infatti, che il sistema nervoso centrale riceve in massima parte nervi afferenti (sensitivi). La presenza di meccanocettori, in grado di comportare effetti a livello locale e generale, è stata abbondantemente riscontrata nella fascia fin nei legamenti viscerali e nella dura madre cefalica e spinale (sacco durale). E’ noto che l’organismo riserva al sistema di feed-back una grande importanza. Spesso, infatti, in un nervo misto la quantità di fibre sensitive supera di gran lunga quelle motorie. Ciò che occorre considerare è che nell’innervazione muscolare tali fibre sensitive derivano solo per ca. il 25% dai ben noti recettori del Golgi, Ruffini, Pacini e Paciniformi (fibre tipo I e II) mentre tutta la restante parte ha origine dai “recettori interstiziali” (fibre tipo III e IV). Questi piccoli recettori, che perlopiù originano come terminazioni nervose libere, oltre a essere i più numerosi nel nostro organismo, sono ubiquitari (la loro massima concentrazione è nel periostio) e pertanto sono presenti sia negli interstizi muscolari che nella fascia. Circa il 90% di essi sono demienilizzati (tipo IV) mentre i restanti posseggono una sottile guaina mielinica (tipo III). I recettori “interstiziali” possiedono un’azione più lenta rispetto ai recettori tipo I e II e in passato sono stati considerati perlopiù nocicettori, termo e chemiorecettori. In realtà molti di loro risultano multimodali e in maggioranza sono meccanorecettori suddivisibili in due sottogruppi, in base alla loro soglia di attivazione tramite stimoli pressori: low-treshold (LTP) e high-treshold pressure (HTP) – Mitchell & Schmidt, 1977. L’attivazione, in determinati stati patologici di recettori interstiziali sensibili sia a stimoli dolorifici che meccanici (in maggioranza HTP) può generare sindromi dolorose in assenza delle classiche irritazioni nervose (es. compressioni radicolari) – Chaitow & DeLany, 2000.
Questo network sensoriale oltre ad avere una funzione di rilevamento afferente del posizionamento e del movimento dei segmenti corporei, influenza, per mezzo di intime connessioni, il sistema nervoso autonomo riguardo funzioni, quali la regolazione della pressione sanguinea, del battito cardiaco e della respirazione, sintonizzandole, in maniera molto precisa, alle esigenze tissutali locali. L’attivazione dei meccanorecettori interstiziali agisce sul sistema nervoso autonomo, inducendolo a variare la pressione locale di arteriole e capillari presenti nella fascia, influenzando così il passaggio di plasma dai vasi alla matrice extracellulare variandone quindi la viscosità locale (Kruger, 1987). Inoltre, la stimolazione dei recettori interstiziali, così come quella dei recettori di Ruffini, è in grado di incrementare il tono vagale generando cambiamento globali a livello neuromuscolare, corticale ed endocrino ed emozionale concernenti un profondo e benefico rilassamento (Schleip, 2003).
Pressioni manuali profonde, eseguite in maniera statica o con lenti movimenti, oltre a favorire la trasformazione “gel to sol” della sostanza fondamentale della fascia (grazie alle sue proprietà tixotropiche), stimolano i meccanorecettori di Ruffini (specie per forze tangenziali come lo stretching laterale) e una parte degli interstiziali inducendo un incremento dell’attività vagale con i relativi effetti sulle attività autonome fra cui un rilassamento globale di tutti i muscoli oltre che mentale (van den Berg & Cabri, 1999). Risultato opposto è ottenuto tramite manualità forti e rapide che stimolano i corpuscoli di Pacini e i Paciniformi (Eble 1960).
Miofibroblasti
Scoperti nel 1970, i miofibroblasti sono cellule del tessuto connettivo interposte alle fibre collagene fasciali con capacità contrattili simili alla muscolatura liscia (contengono actina). Esse ricoprono un riconosciuto e importante ruolo nella guarigione delle ferite, nella fibrosi dei tessuti, e nelle contratture patologiche. I miofibroblasti si contraggono attivamente in situazioni infiammatorie, quali morbo di Dupuytren, artrite reumatoide, cirrosi epatica. In condizioni fisiologiche si trovano nella pelle, milza, utero, ovaie, vasi circolatori, setti Articolo-AT-02polmonari, legamenti periodontali (van den Berg & Cabri, 1999). La loro evoluzione è vista generalmente da normali fibroblasti a proto-miofibroblasti, fino alla completa differenziazione in miofibroblasti e as una apoptosi terminale che è influenzata dalle tensioni meccaniche, dalle citochine e da specifiche proteine che provengono dalla matrice extracellulare.
Data anche la favorevole configurazione della distribuzione di tali cellule contrattili all’interno della fascia, il probabile ruolo di queste strutture contrattili è quello di sistema di tensione accessorio tale da sinergizzare la contrazione muscolare fornendo un vantaggio in situazioni di pericolo per la sopravvivenza (lotta e/o fuga). E’ inoltre molto probabile che tramite tali fibre muscolari lisce il sistema nervoso autonomo, tramite nervi intrafasciali, possa “pre-tensionare” la fascia indipendente dal tono muscolare (Gabbiani, 2003, 2007). La presenza di tali cellule nelle capsule di rivestimento degli organi spiegherebbe ad es. come la milza possa rimpicciolirsi fino a metà del suo volume in pochi minuti (fenomeno osservato nei cani in situazioni di sforzo strenuo in cui viene richiesta l’erogazione della scorta di sangue in essa contenuto nonostante che il rivestimento capsulare sia ricco in fibre collagene che consentono solo piccole variazioni di lunghezza (Schleip, 2003).
La contrazione delle fibre muscolari lisce è ottenuta tramite l’attivazione del sistema nervoso simpatico così come per mezzo di sostanze vasocostrittrici quali la serotonina e l’anidride carbonica (CO2). Quest’ultima crea un ulteriore legame fra comportamento della fascia e pH corporeo. Risulta significativo che la maggior parte dei pazienti affetti da fibromialgia o stanchezza cronica presentino una cronica iperventilazione franca o borderline (con conseguente aumento di alcalinità per carenza di CO2 nel sangue), nonchè alti livelli inusuali di serotina nel liquido cerebrospinale. La serotina, infine, abbassa la soglia di attivazione dei nocicettori interstiziali tipo IV. Ciò indicherebbe che il dolore fibromialgico possa essere causato in parte dalla contrazione della fascia (disfunzione motoria) e ancor più dall’alterazione della sensibilità recettoriale dolorifica (disfunzione sensoriale) – Mitchell & Schmidt, 1977.
“L’anima dell’uomo, con tutte le sue sorgenti di acqua pura vivente, sembra sgorgare nella fascia del suo corpo. Quando tu vieni a patti con la fascia, tu tratti e lavori con le succursali del cervello sottoposte alle stessi leggi del quartier generale, come se lavorassi con il cervello stesso: perché dunque non trattare la fascia con lo stesso grado di rispetto?” (Still, 1899)
Biomeccanica della fascia profonda
Articolo-AT-03La fascia toraco-lombare, dal punto di vista biomeccanico, riveste il fondamentale compito di minimizzare lo stress sulla colonna vertebrale e ottimizzare la locomozione. Considerando opportunamente la fascia, si potranno sfatare alcune comuni convinzioni basate su ipotesi, seppur suggestive, in realtà mai dimostrate.
Gli studi dimostrano che il disco intervertebrale raramente viene distrutto per pura compressione assiale, in quanto il corpo vertebrale viene distrutto molto prima dell’anulus fibroso (Shirazi-Adl et al. 1984). Il piatto articolare del corpo vertebrale si rompe per un carico assiale (per pura compressione) di ca. 220 kg (Nachemson, 1970): la pressione del nucleo del disco intervertebrale causa la frattura del end-plate in cui migra parte del materiale nucleare (noduli di Schmorl) ed essendo un danno a carico dell’osso spongioso può guarire in tempi brevi. Ciò sebbene il metamero vertebrale si rompe a ca 1.200 kg (Hutton, 1982) e l’anulus fibroso, per una pura compressione assiale non inferiore a 400 kg, subisce solo un 10% di deformazione (Gracovetsky, 1988).
Articolo-AT-04La compressione assiale, pertanto, non è in grado di creare fissurazioni dell’anulus (e di creare danni alle faccette articolari) a meno di violenti impatti. Invece, la compressione associata alla torsione si è dimostrata in grado di danneggiare le fibre dell’anulus e i legamenti capsulari delle faccette articolari; nei casi estremi vi è l’erniazione. Il danno è localizzato alla periferia del disco ed essendo un danno legamentoso richiede tempo per ripararsi. Un’ernia del disco, salvo rare eccezioni, è quindi scatenata in realtà da sforzi di taglio associati a compressione (Shirazi-Adl et al. 1986). Tutto ciò fa pensare che il disco intervertebrale non sia un sufficiente sistema di ammortizzazione e trasmissione di carichi ma, in realtà, un energy converter (Gracovetsky, 1986).
D’altra parte, però, non c’è dubbio che il carico di compressione vertebrale può raggiungere 700 kg caricando grossi pesi (la forza applicata su L5-S1 sollevando un peso flessi a 45 gradi è circa 12 volte il peso stesso).
Negli anni 40, Bartelink propose l’idea, ancor oggi comunemente accettata, che, per sollevare un peso, i muscoli erettori spinali agiscono sulle apofisi spinose delle relative vertebre aiutati dalla pressione intra-addominale (IAP) che, a sua volta, spingerebbe sul diaframma (Bartelink, 1957). Poichè è stato verificato che la massima forza esercitabile dai muscoli erettori corrisponde a 50 kg (McNeill, 1979), tramite un semplice calcolo si dimostra che, secondo tale ipotesi, sollevando un carico di 200 kg la pressione intra-addominale dovrebbe raggiungere un valore circa 15 volte la pressionesanguigna (il valore massimo di IAP, calcolato su una superficie trasversale di 0,2 m2 è di 500 mm Hg – Granhed 1987).
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Il modello di Bartelink assume un senso se si introduce la fascia. Durante il sollevamento del peso, flettendo la colonna col bacino in retroversione (ossia tensionando al meglio la fascia), i muscoli erettori hanno poco bisogno di attivarsi. Il sollevamento avviene soprattutto per azione dei muscoli estensori della coscia sulle anche (ischiocrurali e grandi glutei) e della fascia. Nei campioni olimpici si è verificato che lo sforzo è suddiviso in 80% fascia e 20% muscoli (Gracovetsky, 1988). E’ quindi il collagene che svolge gran parte del lavoro, in quanto, fungendo come un cavo, non consuma praticamente energia; in più, grazie alla sue inserzioni creste iliache-apofisi spinose, si posiziona praticamente al di fuori del corpo, presentando il vantaggio di essere lontano dal fulcro della leva di sollevamento (braccio di leva maggiore). Ciò è una scelta evolutiva forzata, in quanto muscoli erettori per essere in grado di sollevare più di 50 kg avrebbero dovuto incrementare la loro massa occupando così tutta la cavità addominale. I supplementi di forza (muscoli e fascia) sono stati pertanto posizionati al di fuori della cavità addominale.
I muscoli erettori (multifidi) e la pressione intraddominale, insieme ai muscoli psoas, regolano in realtà tridimensionalmente la lordosi lombare, assumendo così un importante ruolo di modulatori del trasferimento delle forze tra muscoli e fascia.
La pressione addominale interna, infatti, non comprime significativamente il diaframma; essa, in realtà, agisce sulla lordosi lombare e quindi sulla trasmissione delle forze tra muscoli e fascia. La pressione intraddominale infatti appiattisce la fascia facendo sì che i muscoli addominali trasversi (che costituiscono la parte attiva della fascia dorso-lombare in quanto alle sue fibre sono attaccati margini liberi di essa) trazionino sullo stesso piano della fascia. Quando la pressione intraddominale è bassa tale meccanismo è disabilitato e ogni azione dei muscoli addominali (del muscolo retto in particolare) conduce ad una flessione del tronco. In altre parole se la tensione dei muscoli addominali interni è alta, la regione lombare va in iperlordosi estendendosi, mentre se la pressione nell’addome è bassa la colonna può flettersi con il bacino in retroversione, tendendo così la fascia (retrovertere il bacino prima di iniziare il sollevamento in flessione è un atteggiamento tipico delle persone che sollevano pesi senza problemi. In quest’ultima condizione inoltre vi è una minore opposizione alla pressione sanguigna sistolica, quindi il sangue scorre meglio verso le estremità (in qualche modo il nostro sistema muscolo-scheletrico fa in modo che non vi sia un a eccessiva pressione interna addominale così da preservare la circolazione sanguinea periferica). Pertanto la fascia può fornire il suo importante contribuito durante la flessione della colonna se si diminuisce la tensione addominale (Gracovetsky, 1985).
Funzioni del tessuto connettivo
mantenimento postura, connessione e protezione organi, equilibrio acido-base, metabolismo idrosalino, equilibrio elettrico ed osmotico, circolazione sanguinea, conduzione nervosa, propriocezione, coordinazione motoria, barriera all’invasione di batteri e particelle inerti, sistema immunitario (leucociti, mastociti, macrofagi, plasmacellule), processi infiammatori. riparazione e riempimento zone danneggiate, riserva energetica (lipidi), di acqua ed elettroliti, di ca. 1/3 delle proteine plasmatiche totali, comunicazione intercellulare ed extra-intracellulare (Chetta, 2007).